L' opinione degli intellettuali? All'assessore alla cultura di Trieste non interessa


L’assessore alla cultura del Comune di Trieste, Giorgio Rossi, nelle dichiarazioni rilasciate ieri al quotidiano “Il Piccolo” (v. articoli qui sotto) dice che “ha tanta pazienza”, ma in realtà si è molto arrabbiato con gli oltre 200 firmatari della lettera con cui il mondo della cultura gli chiede di ripristinare il ruolo di direttore dei Musei civici che la Giunta ha da poco abolito. E, benché dica che è normale "ricevere critiche e osservazioni”, non ha nessuna intenzione, non solo di fare marcia indietro, ma nemmeno di aprire un dialogo con questi interlocutori. Sa che non è in grado di fornire nessuna motivazione accettabile. E non può limitarsi a ripetere il suo slogan: “Meno generali e più colonnelli” perché il paragone militare c'entra davvero poco con i musei.

Diciamo che il confronto democratico non fa parte della visione della politica di questo assessore, né  ha il minimo interesse per ciò che potrebbe chiarirgli, in tema di musei, il mondo della cultura cittadina. Se ha dichiarato di essere rimasto colpito dal passo della lettera in cui si dice che "Non importa quanti visitatori ha un museo ma a quanti visitatori si è insegnato qualcosa" e di chiedersi "chi debba dare questo giudizio", beh, diciamo pure che a questo punto, non c’è nulla da sperare. Si può solo continuare a informare i cittadini di quello che accade, aiutarli ad aprire gli occhi sulle  motivazioni non dichiarate, sui veri obiettivi. E contare tristemente, come sempre, su un futuro migliore.

A quanto si comprende dall’intervista, per l’assessore Rossi la cultura è un’arma detenuta da un’élite presuntuosa che si permette di dare giudizi non richiesti sul suo operato. Proprio non gli va giù, non capisce: nel mandato precedente lo avevano sempre lasciato in pace... Riflette: “Ma quello che mi domando è: cosa significa oggi essere intellettuali? Essere di destra o sinistra? Essere di un entourage specifico? Qual è il compito degli intellettuali?”

L’ “intellettuale” è proprio una figura sconosciuta all’assessore. Non sa chi è, cosa fa, come è schierato, che "giri" frequenta, quale ruolo ha. Un mistero. Gli è chiaro solo che ha potere sulla cultura. E lui si è convinto che la sua missione è portargliela via e distribuirla al popolo.

Proprio ora che ha trovato una soluzione che gli risolverà la vita per anni, le mostre già pronte, “a pacchetto”,  qualcuno si è messo in testa di rompergli le scatole perché dicono che in un museo come il Revoltella non si possono fare solo mostre disparate, confezionate all'esterno e già viste in tante altre città, e che lui ha tolto di mezzo persino la figura del direttore del museo per poterle fare senza discutere con nessuno…

Gli veniva da dire, ma si è morso la lingua: “Cari intellettuali, qui non ci siamo capiti: il museo è mio e decido io”.

Un direttore fa solo perdere tempo a un assessore che ha solo certezze. Magari gli fa notare che non si può fissare un biglietto di ingresso da 17 euro per una piccola mostra come quella degli Impressionisti,  né obbligare a pagare quel biglietto, così poco "popolare", anche coloro che magari vogliono visitare solo il museo. Magari lui si infastidisce nel sentirselo dire. Meglio i dirigenti amministrativi che lasciano passare tutto.

All’assessore non passa neppure per la testa che le scelte di programmazione culturale non può farle da solo, sulla base di proposte giunte da soggetti privati che svolgono quest'attività a fini di lucro, e che non vanno discusse solo in Giunta o con i dirigenti amministrativi, ma devono essere sottoposte al vaglio di esperti e possibilmente di una commissione, qualcuno, insomma che sia davvero in grado, per competenza e per esperienza, di decidere il valore di una mostra. A questo servono il direttore del museo e il Curatorio. E guarda caso entrambi sono stati azzerati.

Non è che in passato non siano state realizzate mostre "chiavi in mano" anche al Museo Revoltella (Klimt, Kokoschka e Schiele, ad esempio, 2002, prima giunta Dipiazza) o anche Casorati (2007, seconda Giunta Dipiazza) ma la situazione era ben diversa, avevano motivazioni inattaccabili, la prima, per gli ovvi legami culturali fra Vienna e Trieste, ma anche per la presenza di opere eccezionali come la Giuditta della Galleria del Belvedere,  la seconda, curata da Claudia Gian Ferrari, perchè era un irripetibile "contorno" per il "Meriggio", l'opera più famosa del museo, di Casorati appunto, che per la prima volta veniva vista a confronto con le altre tele dipinte da lui.

Nessuno ha obiettato di fronte a queste proposte che arrivavano dall'esterno, anzi, ma si trattava di opportunità davvero da non lasciarsi sfuggire; di norma, però, il museo ha sempre prodotto in proprio le sue grandi mostre, avvalendosi spesso di curatori esterni, ma discutendo e gestendo tutte le scelte dall'interno. 

Insomma è questo che fa la differenza fra una città dove i musei funzionano e una in cui sono solo lo sfondo di altre attività e devono subire, magari per anni, la convivenza con mostre totalmente estranee alle proprie collezioni e alle proprie finalità.  Che, a dispetto di questo nuovo corso, restano sempre quelle di conservare e valorizzare il patrimonio cittadino, affidandolo a mani sicure. 

Maria Masau Dan





















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