C'era una volta il vecchio custode del museo. Una figura iconica. Un complemento d'arredo, immancabile. Di solito anziano e un po'malandato, la vecchia divisa comunale abbastanza consunta, che accoglieva i visitatori semiaddormentato sulla sedia. Uno scenario immutato dall'Ottocento alla metà del Novecento, che ha concorso a perpetuare l'immagine del museo come una specie di cimitero popolato di fantasmi.
Poi è cambiato tutto. Negli anni Novanta sono entrate le cooperative. Ragazze giovani vestite come hostess, poliglotte, laureate, motivate. Attività commerciali, bookshop, caffetterie ad animare quei vecchi ambienti. Quando questa modalità ha cominciato a diffondersi, all'inizio con le grandi mostre, le speranze erano molte. Ci si è convinti che inserendo nel museo comunale le logiche gestionali e organizzative del privato, ci sarebbe stata una specie di rivoluzione: una maggiore flessibilità negli orari e nelle mansioni, assunzioni rapide di personale specializzato, miglioramento dell'immagine e della comunicazione. Insomma, dalla visita guidata in inglese al taxi da prenotare per l'ospite illustre, dal vetro da sostituire all'organizzazione di un convegno, ci avrebbe pensato la cooperativa. Una struttura operativa snella e flessibile, dotata di professionalità differenziate. La quale avrebbe potuto aumentare le proprie entrate e quelle del museo con un'adeguata azione di marketing e con la vendita di libri, caffè e gadget.
Non ci è voluto molto per capire che non sarebbe stato così. E le illusioni sono cadute sia dentro i musei, sia fra i giovani delle cooperative, quelli che speravano di cominciare, grazie alla cooperativa, quel percorso di carriera culturale che era completamente bloccato in ambito pubblico.
Ben presto si è capito che la formula della gestione attraverso le cooperative non faceva che riproporre, forse in peggio, la rigidità dei rapporti dell'ente pubblico, con l'aggravante di un rapporto di lavoro sempre precario, che escludeva i progetti a lungo termine, proprio quelli che caratterizzano e qualificano l'attività dei musei, e la differenziazione delle mansioni.
E' mancata totalmente, da parte del Comune, la progettualità culturale e gestionale, non si è riusciti a definire dei nuovi contenuti, nuovi profili professionali, per ottimizzare la collaborazione pubblico-privato e per migliorare l'offerta ai visitatori. Del resto, a Trieste come in altre città, la direzione dei musei è stata portata fuori dal museo e ridotta a direzione amministrativa. Come si può pensare che possa elaborare progetti per migliorare la qualità dei servizi? (Sempre che sappia quali servizi deve erogare un museo).
E' stato più semplice livellare tutto, declassare i musei a semplici uffici, privati di qualsiasi autonomia, e acquistare semplicemente ore di sorveglianza. Senza necessità di qualifiche particolari. Risolvendo la questione della proposta culturale con l'affitto di mostre pronte. Insomma "sezionare" e spersonalizzare il lavoro museale in modo che nessuna delle parti interferisca con l'altra e abbia troppo potere.
Così, anzichè essersi riqualificato, il lavoro di custode, pagato a 4,20 euro all'ora, è considerato quasi nulla, ed è persino peggiorato rispetto a un secolo fa. Almeno il vecchio custode aveva il posto fisso e la pensione assicurata.
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